Se il venditore trattiene la caparra, quando il contratto non va a buon fine, si può configurare il reato di truffa?

Se il venditore trattiene la caparra nel caso in cui il contratto non va a buon fine, si può configurare il reato di truffa?

 È regola comune inserire una caparra confirmatoria al momento della sottoscrizione di un contratto a garanzia delle buone intenzioni di una delle parti. Tale caparra consiste nella dazione di una somma di denaro che uno dei contraenti tratterrà per il caso di inadempimento dell’altra.

Art. 1385 del codice civile

Caparra confirmatoria.

Se al momento della conclusione del contratto una parte dà all’altra, a titolo di caparra, una somma di danaro, o una quantità di altre cose fungibili, la caparra, in caso di adempimento, deve essere restituita o imputata alla prestazione dovuta.

Se la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l’altra può recedere dal contratto, ritenendo la caparra; se inadempiente è invece la parte che l’ha ricevuta, l’altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra.

Se però la parte che non è inadempiente preferisce domandare l’esecuzione o la risoluzione del contratto, il risarcimento del danno è regolato dalle norme generali.

L’utilità della caparra confirmatoria è quella di evitare le liti (leggi: cause in tribunale). Infatti, in genere, chi l’ha ricevuta, potendo trattenerla, si può ritenere soddisfatto anche nel caso in cui l’altra parte del contratto non adempia al suo obbligo potendo trattenere la somma datagli.

Ad esempio, Tizio vuol comprare il mio appartamento. Per dimostrare la sua serietà, al momento della proposta scritta di acquisto, mi lascia una somma (tracciabile: assegno o bonifico) che potrò trattenere se, per qualsiasi motivo imputabile a Tizio, il contratto non si conclude nei tempi previsti. Ovviamente vale anche l’inverso e pertanto se la causa della mancata conclusione del contratto dipenda da me che ho ricevuto la caparra, dovrò restituire il doppio della somma.

Il problema nasce proprio in questa seconda ipotesi. La mancata restituzione della caparra e in alcuni casi può divenire una condotta penalmente rilevante.

La Corte di Cassazione si è pronunciata più volte nel senso per cui risponde del reato di truffa colui che, trattenendo la caparra ricevuta dall’acquirente, non adempie all’obbligo di vendere assunto sulla base di un contratto preliminare di compravendita stipulato nella consapevolezza di non potere o volere adempiere[1].

Il rifiuto opposto alla richiesta di restituzione della caparra, unitamente al rifiuto di risolvere il contratto costituisce elemento che concretizza il requisito del danno a carico del truffato, fermo restando che, in questo caso, il profitto era già stato incamerato tramite la riscossione dell’assegno (o del bonifico).

In casi simili la giurisprudenza di cassazione afferma che sussiste  il reato di truffa in contrahendo, ovverosia l’induzione a trattare l’acquisto di un bene instaurando trattative e facendosi pagare una caparra senza poi consegnare la merce. Spesso, in verità, il truffatore compie anche altre azioni che inducono in inganno la vittima, come per esempio farsi pagare su una carta di credito, o, per le somme minori, su una PostePay o carta simile, intestata ad un altro soggetto o fornendo un numero telefonico di altra persona spesso compiacente al quale non si farà più trovare dopo aver “incassato” la caparra.

Tali comportamenti non sono compatibili con la volontà di condurre a buon fine l’acquisto. In questi casi, quindi non può parlarsi di una condotta che abbia una rilevanza meramente civilistica ed integrano la fattispecie di truffa in contrahendo» poiché viene realizzata mediante simulazione di circostanze e di condizioni non vere, create con artifici al fine di indurre in errore la vittima.

Per procedere penalmente occorre proporre querela davanti alla Polizia Giudiziaria o direttamente davanti alla Procura della Repubblica entro tre mesi dalla scoperta del raggiro (art. 124 c.p.).

 

[1] Si vedano a esempio Cass. pen. ,Sez. II, 6 aprile 2017, n. 32699; Cass. pen., Sez. II, 26 febbraio 2010, n. 14674; Cass. pen., Sez. III, 14 novembre 2006, n. 563.

Lascia un commento